Attualità e politica

Pignatone: “Per i mafiosi presenza è potenza e il 41 bis non va cancellato”

Il neo ministro della Giustizia Marta Cartabia ha già davanti a sé numerosi nodi da affrontare, dalla riforma della prescrizione approvata dal suo predecessore Bonafede al contagio nelle carceri. Ma non solo, tra i punti più delicati vi è il rinnovo o l’eventuale cancellazione o allentamento del regime di cui all’articolo 41 bis, introdotto dopo la strage di Capaci.

Come afferma Giuseppe Pignatone, ex procuratore della Repubblica di Roma, nell’editoriale su Repubblica, “il 41 bis rimane uno dei principali obiettivi dei boss. E non perché – come vuole la vulgata mediatica – si tratti di ‘carcere duro’, ma perché esso impedisce, o quanto meno ostacola, le comunicazioni tra il carcere e l’esterno, un flusso vitale per i mafiosi che solo così possono mantenere il controllo sui loro affari e il loro ruolo nell’organizzazione”.

Per i mafiosi “presenza è potenza” e anche dal carcere i boss continuano a dare ordini e istruire i propri fedelissimi in libertà.

Dall’arresto di una ventina di persone nell’ambito di una maxi operazione a Palermo, per le quali come ricorda Pignatone vale la presunzione di non colpevolezza, emergono per l’ex procuratore alcune riflessioni. A partire dal fatto che la comunicazione dei mafiosi con l’esterno era permessa dal personale carcerario e di controllo, oltre che dall’avvocatessa che organizzava riunioni dei boss nel suo studio e consegnava i messaggi ai clienti detenuti che così potevano comunicare anche da istituti diversi.

Ciò conferma la necessità di mantenere il 41bis per bloccare le comunicazioni con l’esterno, ma spinge a ridurre il numero dei detenuti assegnati a questo regime, con un controllo rigoroso della persistenza dei requisiti necessari.

Un altro elemento di riflessione per Pignatone è l’arresto di due persone che godevano da anni di alcuni benefici penitenziari nonostante non avessero mai collaborato con la giustizia. Per il Tribunale di sorveglianza non avrebbero potuto aggiungere nulla a quanto già emerso con i processi e gli era dunque stata concessa la semilibertà. Tra questi, Antonio Gallea. mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, che aveva potuto trascorrere brevi periodi nel suo paese dell’Agrigentino e ne aveva approfittato per reinserirsi nel tessuto criminale.

“Questa amara vicenda conferma la difficoltà del compito che ricade sulla magistratura di sorveglianza, chiamata a prevedere i comportamenti futuri del detenuto, assicurando il delicato equilibrio tra il suo diritto a sperare in una vita diversa e le esigenze di tutela della collettività”, afferma Pignatone.

Da qui per l’ex procuratore la necessità di attivare strumenti che aiutino il giudice a decidere, a partire da una più alta formazione e professionalità degli operatori carcerari. Il giudice può anche sbagliare, ma deve avere gli strumenti per poter decidere, ferma restando la salvaguardia della persona e il principio della rieducazione del condannato.

Redazione

 

 

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