«Un milione di veicoli prodotti in Italia entro il 2030. La fonte e la data della dichiarazione? Carlos Tavares, Ceo di Stellantis, lo scorso gennaio in occasione della presentazione dei conti 2023. Nonostante l’ottimismo del manager portoghese, la realtà è decisamente diversa e il futuro è tutt’altro che roseo. Perché lo scorso anno la produzione in Italia di Stellantis si è fermata a 521.842 auto (su un volume complessivo di 752.122 veicoli aggiungendo i commerciali) su un totale di 541 mila vetture prodotte in patria. Non va meglio nel 2024, secondo i dati preliminari Anfia, con la produzione domestica delle autovetture in calo del 31,3% nel mese di marzo e del 21,1% nel trimestre. (Sole 24 Ore)
Tradotto? Senza Stellantis si può dire addio alla produzione di grandi volumi, lasciando una delle più importanti industrie manifatturiere appannaggio di aziende di nicchia come Ferrari e Lamborghini o rebranding come Dr con vetture cinesi personalizzate in Molise. Proprio dalla Cina poteva arrivare un aumento di volumi di produzione, grazie ai modelli Leapmotor commercializzati grazie alla joint venture tra il costruttore asiatico e Stellantis. Ma la doccia fredda è arrivata dallo stesso Tavares: solo commercializzazione e nessuna produzione in Italia. E a Mirafiori resta solo la Fiat 500 elettrica, a fine carriera, realizzata per di più su una piattaforma non coerente con le altre del gruppo, e la gemella Abarth 500 elettrica che è per ora un flop. Ma come si è arrivato a tutto questo? Togliendo, volutamente, l’Italia dallo scacchiere mondiale della produzione automobilistica e restando legati esclusivamente prima al gruppo Fiat, poi a Fca e ora a Stellantis.
E dire che le occasioni non sono mancate. A fine anni 90 Toyota decise di produrre in Europa la Yaris ma chi fu l’unico governo a non mostrare interesse? Quello italiano. Alla fine, venne scelta la Francia con lo stabilimento di Valenciennes capace di costruire in meno di 20 anni oltre 4 milioni di veicoli. E cosa dire di Ford? Pronta nel 1986 a comprare Alfa Romeo (dopo il tentativo di Ferrari nel 1963) con un accordo decisamente vantaggioso per il Biscione ma che finì con un nulla di fatto, e con l’azienda passata alla Fiat di Gianni Agnelli, grazie all’intervento della politica dell’epoca. Destino migliore per il gruppo Volkswagen, in grado di comprare Ducati e Lamborghini (aumentandone produzione, fatturati e dipendenti) ma tenendosi lontana da aprire impianti per i propri marchi, presenti invece in Spagna, Ungheria, Belgio e Repubblica Ceca.
Proprio l’esempio spagnolo descrive alla perfezione quello che si sarebbe potuto fare anche in Italia. Seat, nata nel 1950, per oltre 30 anni ha rimarchiato modelli Fiat (che la fondò insieme al governo spagnolo) fino all’arrivo di Volkswagen. Il gruppo tedesco ne esalta il carattere latino, aggiunge know-how e addirittura nel 2015 ne mette un italiano al comando. Luca de Meo, padre putativo (insieme a Lapo Elkann) della Fiat 500 del 2007, che oltre a risanarne i conti si inventa un nuovo marchio. Perché se Seat manca di appeal, Cupra diventa un case history con un successo superiore alle più rosee aspettative. E proprio il passaggio di De Meo da Fiat a Volkswagen (arrivando oggi a essere al comando del gruppo Renault) riassume quello che sta succedendo a Torino e “dintorni”: una vera e propria fuga di cervelli. Si è passato dagli oltre 112 mila dipendenti in Italia del 2000, ai 60.000 nel 2017 per arrivare ai 47.200 del 2023. Il calo del personale è andato di pari passo con cessioni importanti capaci di cambiare le sorti dell’automotive italiano, come nel caso della Magneti Marelli venduta nel 2018 per 6 miliardi di euro. Non solo aziende ma anche centri di sviluppo unici al mondo come la pista di Nardò, venduta a Porsche nel 2012.