Sarebbe bellissimo un mondo senza plastica e con zero emissioni di Co2, tutti vorremmo vivere in un ambiente salubre dove si respira aria pulita e le strade sono attraversate esclusivamente da veicoli elettrici, senza rumori e scarichi inquinanti. Un giorno ci arriveremo, questo sogno diventerà realtà, e l’impulso europeo sta giocando un ruolo fondamentale in questo senso. Nell’attesa che tali obiettivi si realizzino, dobbiamo chiederci fino a che punto le esigenze produttive e industriali possano essere sacrificate sull’altare di un cambiamento che richiede tempo e tenacia.
Prendete la plastica, l’odiosa plastica. L’Europa ha adottato una direttiva severa, anzi severissima, dal titolo SUP (Single use plastic), per mettere al bando l’utilizzo del materiale ricavato dalla lavorazione del petrolio. La direttiva 904 del 2019 si spinge fino a bandire anche la produzione della carta rafforzata da veli di plastica e delle plastiche cosiddette “oxodegradabili” (cioè non pienamente degradabili). Per intenderci: dal 3 luglio, data dell’entrata in vigore del provvedimento europeo, bastoncini cotonati, cannucce, piatti, bicchieri e posate di carta (ricoperti da un velo di plastica) saranno banditi.
Ora, il provvedimento europeo era noto sin dal 2019, e forse i politici italiani avrebbero dovuto rendersi conto ben prima della portata delle misure contenute (a un mese dall’entrata in vigore è un po’ tardi…). Per l’industria cartaria italiana, che rappresenta un’eccellenza nazionale e impiega oltre 50mila addetti nelle attività di packaging cartaceo, l’attuazione della direttiva vorrebbe dire fermare le macchine e chiudere gli stabilimenti. La lotta contro la plastica è sacrosanta ma se significa lotta contro il lavoro l’Italia non può starci. Va bene proteggere la salute delle persone e del pianeta ma a quale costo?
La transizione ecologica non può e non deve diventare un incubo per gli imprenditori o, peggio ancora, una ghigliottina legalizzata per migliaia di famiglie che, da un giorno all’altro, rischiano di trovarsi ai margini del mercato del lavoro in molteplici settori, non solo quelli legati alla plastica. Ha fatto bene allora il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani a definire “assurda” la direttiva in questione “per la quale va bene solo la plastica che si ricicla. Questo a noi non può andare bene”. Suona quantomeno bizzarro che l’Europa abbia scelto di catalogare come “plastica” esclusivamente quella riciclabile tagliando fuori i materiali biodegradabili che in questo momento, stando alla direttiva 904, non sarebbero utilizzabili dall’industria.
Pretendere che si possa passare, in un istante, ad un mondo dove soltanto la plastica riciclabile abbia diritto di cittadinanza rivela un atteggiamento velleitario e dogmatico. Affinché il cambiamento immaginato dal Green New Deal possa realizzarsi è necessario riscoprire le virtù e i meriti di una politica graduale, fatta di “piccoli passi”, come quelli che a metà del Novecento posero le basi della costruzione europea. La plastica fa male ma l’ideologia ne fa ancora di più, e l’Italia non può permetterselo.
Annalisa Chirico