Il siderurgico è uno dei settori industriali a più alto valore in termini di emissioni specifica di CO2: le sue emissioni dirette rappresentano il 7% delle emissioni globali da fonti fossili e processi industriali, in media, ad ogni tonnellata di acciaio prodotta corrispondono circa 2 tonnellate di CO2 emessa (diretta e indiretta). Per questo motivo alcuni produttori di acciaio, come Arcelor Mittal o la svedese SAAB, stanno puntando sull’idrogeno come strumento per convertire gli attuali processi produttivi e ridurre drasticamente le emissioni inquinanti. Questa riconversione sarà anche economicamente sostenibile. Hydrogen Europe, la principale associazione industriale del settore e che collabora con la Commissione europea e la comunità di ricerca per accelerare l’introduzione sul mercato delle tecnologie legate all’idrogeno verde nei settori dell’energia e dei trasporti, nel suo rapporto Clean Hydrogen Monitor 2020 ha calcolato, infatti, che il prezzo dell’idrogeno verde dagli attuali 3,2-7,4 euro al chilogrammo scenderà fino a 1,5-2 entro il 2030.
Dunque, produrre acciaio green è possibile e potrebbe essere un’opportunità per l’industria siderurgica italiana, la seconda potenza produttiva a livello continentale per capacità prodotta, ma attualmente esclusa dalla top ten del ranking mondiale in particolare a causa delle problematiche connesse allo stabilimento ex Ilva di Taranto. Un’occasione che 3 campioni dell’industria italiana come Saipem, Danieli e Leonardo sono pronti a cogliere per rilanciare un settore strategico e metterlo al passo con gli ultimi trend di mercato. Per questo, le tre aziende hanno firmato un accordo di collaborazione per la riconversione degli impianti siderurgici in Italia ed all’estero. “Abbiamo unito le forze di chi ha competenze specifiche e in questo modo possiamo mettere in campo la nostra capacità di sviluppare ingegneria e gestire un eventuale progetto operativo. È un team ben strutturato e molto forte. Lavoriamo insieme e proporremo qualcosa che possa essere attraente per la controparte”, ha dichiarato l’amministratore delegato di Saipem Stefano Cao. La collaborazione ha come obbiettivo la revisione del tradizionale processo di produzione dell’acciaio, attraverso la sostituzione degli attuali altiforni e convertitori a ossigeno convenzionali con forni ad alimentazione elettrica ibrida alimentati da ferro preridotto, ottenuto in impianti di riduzione diretta del minerale di ferro per mezzo di una miscela di metano e idrogeno. Il risultato? Acciaio green con un abbattimento delle emissioni di CO2 fino all’80%. Saipem si occuperà della realizzazione in loco degli impianti, integrando tecnologie e competenze sviluppate nelle filiere del gas naturale e dell’idrogeno. Danieli fornirà i forni elettrici e gli equipaggiamenti tecnologici di riduzione diretta, basati sulla tecnologia proprietaria Energiron, e Leonardo metterà a disposizione soluzioni digitali ed integrate di Industry 4.0 per ottimizzare la sicurezza dei processi e la protezione dei suoi componenti.
L’impianto dell’ex Ilva di Taranto da solo costituisce il 20% della capacità produttiva nazionale.
Il risanamento dell’ex Ilva sarebbe raggiungibile in 6 / 8 anni (procedendo per fasi successive, in meno della metà del tempo se si lavorasse in parallelo su più treni di produzione) preservando il sito produttivo e le maestranze. Il costo? Secondo Antonello Mordeglia, ingegnere e consigliere di amministrazione della Danieli, “si aggira intorno ai 6 miliardi di euro per rendere Taranto tutta green, approvvigionamento energetico compreso e in grado di consentire una produzione annuale fra 6 e 7 milioni di tonnellate di acciaio”. Secondo le indiscrezioni il progetto è stato presentato a Mise, Infrastrutture e Lavoro, ovvero i tre Ministeri centrali per il rilancio del settore siderurgico, coordinati dal ministro Cingolani. La stessa formula sarebbe anche applicabile al sito di Piombino.
Un progetto che oltre a risolvere il problema ambientale di Taranto, consentirebbe all’Italia di mantenere anche una capacità produttiva complessiva di acciaio che si aggira intorno ai 30 milioni di tonnellate annue.
L’impegno di Saipem nella transizione energetica contribuirebbe così al raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione del 55% al 2030 fissati dal Consiglio Europeo. Saipem ha, inoltre, recentemente annunciato i propri obiettivi di riduzione delle emissioni GHG del 50% entro il 2035 (scopo 1 e 2, ovvero le emissioni legate direttamente al proprio business).
Il contributo di Saipem per la transizione energetica e la conseguente riduzione di emissioni inquinanti si declina in un ricco portafoglio di diverse soluzioni tecnologiche: tra queste quelle legate alla CCUS (acronimo delle parole inglesi Carbon, Capture, Utilisation and Storage), che consente di catturare la CO2 dagli effluenti dei processi industriali ed energetici e di stoccarla in modo permanente, o di riutilizzarla per realizzare nuovi prodotti di valore. In particolare, Saipem è attiva nella realizzazione d’impianti di cattura della CO2, di cui ha progettato oltre 70 impianti, nel trasporto a terra e in mare, nello stoccaggio tramite reiniezione, la forma più efficace di immagazzinamento definitivo dell’anidride carbonica, e nel riutilizzo con la produzione fertilizzanti, prodotti chimici e di carburanti sintetici.
Inoltre, nel 2020 Saipem ha acquisito dalla società̀ canadese CO2 Solutions Inc. (CSI) una tecnologia proprietaria per la cattura di CO2 dai fumi di post-combustione. Questa tecnologia, già testata su scala industriale, permette grazie all’azione catalitica di un enzima di favorire l’assorbimento della CO2 traguardando un abbattimento della soglia dei costi di cattura, abilitandone il sequestro e consentendone il riutilizzo per l’ottenimento di nuovi prodotti commercializzabili.
Il contributo di Saipem al rilancio dell’Italia e alla ripresa nel periodo post pandemia riguarda anche il suo contributo al dibattito sul Recovery Fund. Nel corso della recente audizione presso le Commissioni riunite 5a e 14a del Senato, Saipem ha presentato alcune idee di progetto per il Recovery Plan italiano, che dedica 69,8 miliardi di euro di investimenti proprio alla transizione energetica e che salgono a 79 con i fondi di bilancio. Tra questi vi è lo sviluppo di un’innovativa catena del valore della CCUS per accelerare la decarbonizzazione di distretti industriali in Italia, in particolare in Puglia ed Emilia Romagna e rivitalizzare aree messe in grave difficoltà da anni di crisi nel settore Industriale.
“L’obiettivo di Saipem è contribuire al processo di decarbonizzazione di intere filiere produttive attraverso la cattura della CO2 dall’industria dell’Oil and Gas (sia onshore che offshore) e dalle industrie energivore quali ad esempio, le centrali elettriche, i cementifici, le acciaierie. Parte della CO2 catturata può essere riutilizzata negli stessi settori, mentre la porzione rimanente sarà trasportata attraverso una dorsale e stoccata in riserve esaurite sia in mare che a terra. È un modello di business che si basa sul concetto di distretto industriale in cui la cattura e l’immagazzinamento della CO2 avvengono in un perimetro che include sia gli emettitori che gli stoccaggi, tuttavia prevede anche la possibilità di trasporto della CO2 via nave presso hub di stoccaggio a distanze più grandi. Questo perché gli emettitori della CO2 sono distribuiti sul territorio italiano, mentre le aree idonee allo stoccaggio sono limitate. Nei distretti industriali di Taranto e Brindisi la potenziale riduzione di CO2 è di circa 20 milioni di ton/anno (circa il 5,6% delle emissioni di CO2 in Italia)” ha dichiarato l’amministratore delegato Stefano Cao.
Saipem, dunque, negli ultimi anni è riuscita con successo nel suo percorso di riposizionamento da contrattista a fornitore di servizi e sviluppatore di soluzioni per il settore dell’energia e delle infrastrutture: un ruolo sempre più proattivo nel sostenere le aziende che si affidano al campione italiano di questo settore e che cerca di creare valore in tutti quei territori in cui opera. Il contributo globale diretto di Saipem all’economia italiana è stato di circa 4,3 miliardi di euro nel periodo 2017-2019, nonostante il 95% del fatturato derivi da attività all’estero: insomma circa 1/5 di una manovra finanziaria. Considerato poi che l’obiettivo del management è quello di lavorare sempre di più in Italia, non possiamo fare altro che augurarci che quest’azienda leader nel mondo venga coinvolta sempre di più nel rilancio del nostro Paese.