Due giorni fa la Federal Reserve di Atlanta ha pubblicato quello che sembrava un errore di stampa: una previsione del prodotto interno lordo degli Stati Uniti che crolla del 2,8%. Il dato (proiettato in ritmo annuale) si riferisce al primo trimestre del 2025. La banca centrale specifica che non si tratta di un proprio giudizio, ma di un indice generato da un modello che tiene meccanicamente conto degli andamenti su consumi, investimenti e così via. E la realtà è sicuramente molto migliore di quel crollo del 2,8%: i timori sui dazi hanno spinto molti importatori ad accaparrare scorte prima del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, ora i magazzini sono pieni, gli acquisti fermi e dunque l’indice della Fed di Atlanta crolla. (Corriere)
Dietro le anomalie statistiche, tuttavia, dev’esserci anche un po’ di sostanza. Qualche nube si sta affacciando sull’economia americana, sospinta dall’incertezza e dallo stress generati dalle prime sei settimane di Trump. Senz’altro dev’esserci preoccupazione da parte dell’amministrazione stessa, a giudicare dalle contromisure che sta cercando di prendere. Non c’è solo l’ennesima marcia indietro di ieri riguardo ai dazi, stavolta sulle auto; c’è soprattutto il tentativo di controllare le statistiche sull’economia del Paese. Domenica Howard Lutnick, segretario al Commercio, ha spiegato che l’amministrazione valuta di scomputare l’impatto del settore pubblico dal calcolo ufficiale del prodotto interno lordo. Gli ha dato subito man forte Elon Musk: «Una misura più accurata del Pil escluderebbe la spesa pubblica» ha scritto l’uomo più ricco del mondo, incaricato (da «consulente») di falcidiare il bilancio pubblico.
I mercati però non sono soggetti al controllo nemmeno di Trump. Quanto a questo, non sorprende tanto la debolezza di Wall Street: con gli ultimi annunci sui dazi lo S&P500, il principale indice di borsa americano, ha perso tutti i guadagni delle elezioni di quattro mesi fa ed è in rosso del 3,4% da quando un mese fa la Casa Bianca ha annunciato le prime misure contro Canada, Messico e Cina. Più notevole è la debolezza del dollaro. Tradizionalmente il biglietto verde, bene rifugio per eccellenza, si rafforzava nelle fasi di tensioni internazionali e ad ogni mossa protezionista degli Stati Uniti. Negli ultimi due giorni invece sono scattati dazi al 25% contro Messico e Canada e sono saliti di un altro 10% contro la Cina — i tre partner più grandi dell’America — eppure il dollaro è precipitato dell’1,6% sulla media delle altre grandi valute.
Gli investitori sembrano sospettare qualcosa. Visti gli ultimi deludenti dati di fiducia delle famiglie, i mercati vedono debolezza economica all’orizzonte negli Stati Uniti e tagli dei tassi da parte della Fed; oppure iniziano a dubitare che un’America così duramente protezionista possa fornire l’unica grande moneta di riserva del mondo. Di certo un cambio di paradigma sembra in corso anche in Europa. Le svolte annunciate a Berlino e a Bruxelles di spesa da centinaia di miliardi di euro per investimenti in difesa e infrastrutture fanno correre le borse dell’area euro (+4% in un mese) e i rendimenti dei titoli pubblici a dieci anni: solo ieri, sono saliti di quasi lo 0,3% per tutti i governi della zona monetaria.