Economia

Olio d’oliva, il lato indigesto del Made in Italy: il deficit supera i 300 milioni di euro

Nella galassia del Made in Italy non viene concessa sufficiente attenzione all’industria dell’olio d’oliva e a quelle che oggi ci appaiono come delle evidenti contraddizioni. L’olio è un pilastro della dieta mediterranea, ma contribuisce negativamente al saldo della nostra bilancia commerciale perché, purtroppo, importiamo molto di più quanto esportiamo. A metterlo in rilievo è stato un report dell’Area Studi Mediobanca che ha fotografato questa realtà e, di conseguenza, la contraddizione di cui sopra. (Corriere)

L’Italia è di gran lunga il primo mercato mondiale dell’olio d’oliva (anche se i volumi sono in contrazione), ma non è il primo produttore del globo. La palma spetta alla Spagna che assicura due terzi della produzione mondiale contro solo il 12% del Belpaese. Al primato produttivo gli iberici accostano anche quello dell’export che li vede vendere all’estero 4,5 miliardi di euro contro i nostri due.

Fin qui registriamo di essere secondi nel derby Mediterraneo e amen, il guaio è che oltre ad essere il miglior mercato mondiale dell’olio siamo anche il più grande Paese importatore. Per avere più «oro verde» per i nostri consumatori ci rivolgiamo per il 41,7% proprio alla Spagna, per il 38,7% alla Grecia e per il 10,1% alla Tunisia. Il risultato è che la nostra bilancia commerciale è in disavanzo strutturale di circa 315 milioni nel biennio 2022-23, cifra in aumento se paragonata ai 171 milioni della media dal ’91 ad oggi.

Una beffa per un Paese portabandiera della dieta mediterranea e che per di più si vanta, a ragione, di avere il primato della qualità. Gli spagnoli hanno creduto più di noi sul settore e hanno sostenuto nel tempo gli investimenti necessari per tenere costante la produzione, noi no. Sostiene l’Area Studi di Mediobanca che il nostro Paese «risente di limiti allo sviluppo delle quantità prodotte riconducibili a un elevato tasso di abbandono, alla mancanza di una strategia unitaria e alla presenza di diversi produttori legati ancora a un’olivocoltura tradizionale non ammodernata».

In controtendenza rispetto alle altre nazioni produttrici, c’è stata una diminuzione delle superfici ad uliveto (-3,5% nei dieci anni tra il 2011 e il 2021) per di più frammentate tra una miriade di produttori. È mancata anche in questo caso una politica industriale di settore. E pensare che ai tempi del Fondo strategico italiano, nato dopo il caso Parmalat, si parlò persino della creazione di un campione nazionale dell’olio d’oliva. Solo parole.

Redazione

 

 

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