“Insegnavo in una scuola privata, al tempo stesso stavo prendendo il master in studi sociali presso un’università privata. Quando i taleban sono arrivati a Kabul tutto è finito nel giro di 24 ore, abbiamo smesso di andare al lavoro e di andare a scuola, eravamo terrorizzate”, è la storia di Tamanna, ventiquattrenne, che il 7 settembre era tra le donne scese in piazza a Kabul per protestare contro i talebani.
“L’Emirato è la negazione della donna, sono i taleban che ci spingono a scendere nelle piazze per manifestare, abbiamo perso ogni diritto e stiamo perdendo la speranza. Per questo ci aggrappiamo alle proteste, per continuare a sentirci vive e per non regalare agli oppressori una vittoria che avrebbe il sapore di una sconfitta non solo per l’Afghanistan ma per il mondo intero”, afferma la giovane in un’intervista a La Stampa.
Il ritorno dei talebani è stato sin da subito un incubo: “Eravamo spaventate ma soprattutto eravamo consapevoli che avremmo perso la nostra dignità, che ci avrebbero private del lavoro e delle nostre vite”.
Tamanna non ha però intenzione di fermarsi perché, come spiega lei, la protesta è l’unico modo per farla sentire ancora viva: “Tutte noi abbiamo paura, ma sono gli stessi talebani che ci spingono nelle strade a manifestare, questa situazione fa tornare indietro l’Afghanistan e il mondo di vent’anni, azzera il cammino che è stato compiuto in questi due decenni, un cammino di crescita e di maturazione che ha permesso alle donne di essere un pezzo fondamentale della società”.