Il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha annunciato che il prossimo 5 maggio la Francia commemorerà il bicentenario della morte di Napoleone. Il portavoce del governo Gabriel Attal ha già chiarito che la figura dell’Imperatore sarà guardata “con gli occhi spalancati”, tenendo in considerazione anche “i momenti più difficili” e “le scelte che appaiono oggi contestabili”.
Nonostante il chiarimento, la Francia, e non solo, si è divisa sull’idea di ricordare colui che, tra i vari successi, nel 1802 ha ripristinato la schiavitù dopo che la Convenzione l’aveva abolita otto anni prima.
Il Corriere della Sera passa in rassegna alcune delle voci più autorevoli che si sono espresse sul tema: “Commemorare, ma non celebrare. È giusto ricordare Napoleone perché le sue gesta sono esistite, ma non si deve celebrarlo perché si celebra ciò di cui si è fieri, con le nostre mentalità attuali”, spiega Hubert Védrine, consigliere diplomatico di François Mitterrand e poi ministro degli Esteri durante la presidenza Chirac.
Dall’altra parte, vi è il deputato dei Républicains Julien Aubert che sostiene: “Il 15 agosto 1969 il presidente Georges Pompidou andò ad Ajaccio per celebrare il bicentenario della nascita di Napoleone, la prima di una serie di commemorazioni in tutto il Paese. La Francia del 1969 non aveva alcun problema a rivendicare l’eredità napoleonica perché si riconosceva nell’ambizione di una Francia potente in Europa, con un messaggio da rivolgere al mondo”.
Anche oltreoceano si sono espressi sulla possibilità di ricordare il bicentenario della morte di Napoleone e sul New York Times la storica Marlene L. Daut dell’università della Virginia ha affermato che “le istituzioni francesi dovrebbero prestare più attenzione alla storia schiavista del loro Paese piuttosto che rendere onore a un’icona del suprematismo bianco”.
Come spiega Stefano Montefiori sul Corriere della Sera, ha ragione Teresa Cremisi che sul Journal du Dimanche ha dichiarato: “Le controversie sulle commemorazioni assomigliano a liti di condominio. È un po’ come se la Storia fosse scesa in pantofole nel cortile del palazzo, ci si rivolge ai grandi uomini come a vicini di pianerottolo, designati per i loro difetti. È il momento di celebrare Voltaire? Figurarsi, un islamofobo e antisemita. Rousseau? Impossibile, abbandonò i figli. Richelieu? Un traditore nato. Baudelaire? Un drogato misogino e depresso. C’è da domandarsi se almeno Santa Teresa di Lisieux potrebbe sfuggire al cattivo umore dei nostri contemporanei”.