Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick nel suo ultimo saggio, “Giustizia in crisi (salvo intese)” (Baldini Castoldi), analizza quattro punte dell’iceberg che attraversano la nostra società: la legge, il giudice, il processo e la pena sembrano prigioniere di un paradigma votato al fallimento.
E sul primo fronte, quello della legge, Flick scorge nella gestione della pandemia l’acmé di una degenerazione partita da lontano: “La legge non esiste più, fino a pochi giorni fa è esistito soltanto il provvedimento del presidente del Consiglio. Ma il virus non è l’alibi per la sospensione della Costituzione, e i divieti anti-Covid sono legittimi non con i Dpcm ma per decreto legge che non può essere generico o convertito in legge in modo approssimativo. Inoltre, negli scorsi mesi il precedente esecutivo ha cercato di escludere il Parlamento dal dialogo tra singole regioni e stato nella querelle sui provvedimenti per affrontare l’emergenza”.
Nel libro si sofferma anche sulla riduzione del numero dei parlamentari, che definisce “la picconata più forte e letale: non un modo per migliorare l’istituzione ma un pretesto per prolungare o meno la vita del Governo. Perché l’alternativa, dicevano le forze politiche, sarebbe stata soltanto una: il voto anticipato. Ma siamo fuori strada: il procedimento costituzionale della riduzione del numero degli eletti nulla ha a che vedere con la durata di un governo politico. E le due decisioni dovevano essere tenute separate”.
Un altro tema che affronta Flick è la lentezza della giustizia italiana. I report di Consiglio d’Europa e Banca d’Italia evidenziano che il nostro paese è il secondo in Europa, dopo la Grecia, per “disposition time”, vale a dire il tempo necessario per la risoluzione di una causa civile e commerciale. “Il buon senso, ancor prima dei moniti provenienti dalle istituzioni europee, richiederebbe un rapido intervento affinché l’esito del giudizio arrivi il prima possibile e con una ragionevole prevedibilità. È necessario infatti individuare un equilibrio tra l’autonomia valutativa del singolo magistrato e il comando del legislatore, spesso invece assistiamo a una giurisprudenza incoerente o persino contraddittoria, fattore che disincentiva gli investimenti”.
Si sofferma anche sulla prescrizione e sulla riforma voluta dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Il tema è stato trattato come la ricerca di un capro espiatorio e ha distolto l’attenzione dalla vera emergenza: come garantire la ragionevole durata del processo, richiesta dalla Costituzione allo stato che deve apprestare strumenti e garanzie a tal fine, non all’imputato e al suo difensore. La riforma approvata con il governo Conte desta sconcerto sia per il metodo che per i contenuti – spiega Flick – È stata introdotta con un emendamento in un provvedimento rivolto a tutt’altro fine (la famigerata legge “spazzacorrotti”), ignorando per giunta le indicazioni della dottrina e delle commissioni di studio succedutesi nel tempo. Il blocco con la sentenza di primo grado finisce per incidere su meno della metà delle situazioni di prescrizioni mentre la maggior parte di esse matura e si verifica già nella fase delle indagini preliminari e nella stasi prodromica alla fissazione della prima udienza dibattimentale. Alla cui gestione l’imputato e il suo difensore sono per definizione estranei. Inoltre, a differenza di altri ordinamenti, non si prevede alcun rimedio compensativo per evitare all’imputato di subire un processo a vita”.
Un altro tema che desta preoccupazione è quello del contagio nelle carceri: “Viviamo in uno strano sistema che, mentre tenta di sanzionare ogni tipo di incontro tra le persone sostituendolo con la connessione digitale, riserva una forma di convivenza forzata a una schiera ristretta di persone, i detenuti in attesa di giudizio o quanti scontano una pena definitiva. Dopo sessant’anni trascorsi nel mondo giudiziario, mi sono convinto che in carcere si dovrebbe entrare il meno possibile e per il più breve lasso di tempo. Dietro le sbarre dovrebbe essere rinchiuso soltanto il soggetto pericoloso per sé o per gli altri, per il resto andrebbe sempre privilegiato il ricorso a misure alternative e pene accessorie. La pena consistente nella privazione della libertà personale dovrebbe essere una extrema ratio giacché essa si trasforma inevitabilmente in uno strumento di negazione della dignità personale ma la Costituzione, com’è noto, vieta trattamenti inumani e degradanti. Il sovraffollamento è incompatibile con la Costituzione”.
Nel libro, Flick sostiene che manca spesso la trasparenza o forse ve n’è troppa che “sconfina nella mancanza di pudore”. “La totale assenza di coerenza nel sostenere oggi degli orientamenti e domani gli opposti è una mancanza di pudore. All’apparenza sembra che si ricorra a perifrasi tipiche della politica, nella sostanza si coglie invece una durezza del confronto che non ha alcun limite”, afferma il presidente emerito della Consulta.